UN SOGNO DI MEZZA ESTATE - IL CORAGGIO DI APRIRE UNA COSTITUENTE PER UNA RIFORMA DELLO STATO ITALIANO

Lunedì, 19 Agosto, 2024
La recente approvazione della legge Calderoli e la relativa
contrapposizione del centro sinistra con la raccolta di firme per il
referendum dà la misura di come la qualità del clima politico in Italia sia a
livelli sotto la decenza.
Ormai sono passati più di vent’anni dall’entrata nell’euro, 1 gennaio1999
ultima importante e significativa riforma attuata in Italia. L’introduzione
della moneta europea servì anche ad instaurare un vincolo esterno di
fronte all’incapacità di risolvere problemi interni. “l’Europa ci obbligherà
ad essere virtuosi” (C.A. Ciampi). Forse una controprova delle difficoltà a
modernizzare lo stato italiano.
Per il resto il paese vive una transizione eterna senza meta e senza
ragione, in cui si contrabbandano aggiustamenti per riforme.
Innumerevoli interventi senza visione che fanno traballare le istituzioni
senza risolvere realmente le questioni. Commissioni bicamerali, decine di
leggi elettorali, varie riforme scolastiche, della sanità, eliminazione del
finanziamento pubblico dei partiti solo per citarne alcuni. Tutti questi
interventi hanno sempre evidenziato una scarsa capacità di condividere il
cambiamento con spirito unitario. Spirito unitario che sarebbe auspicabile
se non necessario quando si tratta di definire le regole del gioco. La
riforma costituzionale del governo Renzi del 2016, al di là della
valutazione di merito, è l’apogeo della personalizzazione di questo
metodo riformistico. Oppure quella del 2020 sul taglio dei parlamentari
ampiamente sostenuta per un accondiscendimento all’imperante
populismo e approvata da un referendum con il 69%, risultata dopo
qualche anno più costosa del passato, per non parlare della maggiore
deficienza di rappresentatività e di funzionalità dell’istituzione
parlamentare.
 
Un’attenzione a parte merita la modifica del Titolo V della Costituzione,
ad opera del governo Amato nel 2001 attuando la riforma denominata
“Federalismo a costituzione invariata” (l. 59 /1997) a cui si aggancia la
riforma Calderoli dell’autonomia differenziata.
Calderoli non è proprio garanzia di qualità dei risultati. Dalle promesse di
semplificazione con i falò delle leggi, dopo i quali ne rimasero più di
150.000, alla legge elettorale ironicamente e orgogliosamente chiamata
porcellum, fino all’attuale decentramento differenziato di cui non si
conoscono costi finali diretti ed indiretti, tempi ed esiti.
Si profila il fantasma di una brexit regionale in salsa nostrana che alla
prova dei fatti si dimostrerà un colossale inganno.
Sorvolando sugli aspetti più tecnici che cosa sta succedendo con questa
legge? Sta succedendo ciò che sarebbe impensabile in nessun organismo
gestito con un minimo di responsabilità.
Si prospetta di attribuire alle regioni maggiori competenze rispetto al
passato nonostante queste abbiano dato pessima prova nella gestione di
quella materia, la sanità, che rappresenta oltre l’80% del loro bilancio.
Tanto per capire se si togliesse la sanità alle regioni queste si
affloscerebbero come un pallone bucato.
I loro Presidenti si sono pomposamente autonominati “governatori”,
hanno costruito sedi faraoniche. Sul versante dei risultati i dati non
brillano: sono aumentate le liste di attesa nella sanità appaltando le
prestazioni più remunerative ai privati, non sono in grado di utilizzare i
fondi europei o ne hanno utilizzato parecchi per i famigerati cosi di
formazione.
 
Ora a questa classe dirigente che ha lasciato molto a desiderare gli si
vuole affidare ben altre 23 materie di competenza dello stato di cui 14
con l’introduzione dei LEP come se questi LEP fossero la panacea dei mali
italiani. Se non hanno funzionato i LEA per la sanità perché dovrebbero
funzionare i LEP? LEP che nascono con un grave peccato originale che è la
modalità di calcolo. Infatti invece di calcolarli su costi standard vengono
dimensionati sui costi storici. E’ come se un’azienda che abbia bisogno di
ristrutturarsi perché inefficiente, si basasse sulle perfomance che l’hanno
portata al fallimento anziché su parametri che le consentirebbero di stare
sul mercato in modo competitivo. Inoltre favoriscono le regioni del nord
che hanno maggior spesa in merito.
 
Questa breve esemplificazione delle vicende passate conferma come le
classi dirigenti politiche siano impossessate da due demoni distruttivi del
bene comune e del patto sociale senza il quale ogni società è destinata a
perire.
Il demone della sopraffazione che si esplica in un uso delle cosiddette
riforme a mò di randello per schiacciare l’avversario ed in secondo luogo
il demone dell’accaparramento delle risorse, confondendo la proprietà
delle risorse con la capacità amministrativa. Capacità amministrativa che
si è costantemente e diffusamente, da nord a sud salvo rare eccezioni,
sottratta alla rendicontazione secondo un principio di responsabilità.
Quello che gli anglosassoni chiamano accountability.
Abbiamo mai sentito politici di fronte a evidenti fallimenti fare un esame
critico del loro operato, soprattutto quando questo ha comportato spreco
di denaro pubblico? In tanti casi è stato scaricato sui tecnici colpe e
responsabilità di scelte che erano frutto di vincoli politici.
Che il problema delle differenze nord sud non sia una questione di denari
è dimostrato da quanto investito dal 1950 al 1984 con la Cassa del
Mezzogiorno oltre 140 miliardi di €. Il miglior prodotto, come disse don
Sturzo fin dall’inizio nel 1953, furono le “cattedrali nel deserto”. Seguì la
legge 488 del 1992 con microfinanziamenti a pioggia. Dal 1991 al 2013
sono arrivati al Mezzogiorno altri 430 miliardi di € per investimenti e
infrastrutture. Tre volte tanto quanto fatto dalla Cassa. (Istituto Bruno
Leoni)
Il divario nord sud persiste e per certi versi è aumentato.
Chi è il responsabile di questo fallimento?
Un inestricabile groviglio tra classe dirigente politico-economica ed
elettori immersi in un coacervo di corruzione, clientele e tangenti.
L’esito di questa difficile situazione è il mancato ammodernamento dello
Stato e, finito il mito della buona società civile contrapposta al corrotto
ceto politico, via via è emersa la fragilità della società italiana aggrappata
alle diverse corporazioni arroccate a difesa della situazione presente
assunta a diritto intangibile.
Corporazioni che scaricano sulla comunità le loro inefficienze o
inadempienze. Come non ricordare la difesa ad oltranza della Lega del
non rispetto delle quote latte da parte degli allevatori, suo bacino
politico? Risultato: gli operatori illusi e costi a carico dei contribuenti.
Un elogio dello stato autarchico, un regionalismo fallimentare che si avvia
all’ipertrofia, una società sempre più arroccata, rancorosa (Censis 2018)
ed impaurita sono un dato ineludibile da cui partire per chi voglia porre
mano a riforme di cui c’è vitale bisogno. Anche perché chi cavalca questa
situazione pensando di difendere meglio gli interessi della nazione nella
realtà raggiungerà l’esito opposto a quello che si prefigge.
 
Ora dalle esperienze vissute in questi anni è evidente che una riforma che
aiuti lo stato a superare la sua impostazione ottocentesca e allo stesso
tempo gli consenta di non perdere quella massa critica che gli permetta di
competere a livello europeo non può essere parziale. Deve
necessariamente avere una dimensione strutturale, ampia, con una
prospettiva europea ed internazionale, in altre parole una capacità
visionaria di pensare un’Italia più europea e quindi più nazionale.
Lo scenario senza far menzione del debito pubblico è certamente critico e
sicuramente avrebbe bisogno di una classe dirigente che superando le
strumentali avversioni avesse il coraggio di assumersi la responsabilità e
la fatica di proporre al paese una riforma strutturale di ampio respiro.
Ora siamo in una situazione di terra di nessuno, uno stato né federalista
né collaborativo.
La quantità e qualità dei temi riformistici a cui porre mano è tale che non
possono essere affrontati con interventi parziali con il rischio di
sbilanciare l’intera struttura dei poteri e creare mostri organizzativo
istituzionali.
Allo stesso tempo con tutta evidenza un accapparramento di una parte
politica indebolisce la scelta con l’alto rischio di essere smontata
all’indomani al mutare delle diverse sorti politiche. Non si può affrontare
la forma di governo, la struttura dello stato, la riforma
dell’amministrazione pubblica, con una maggioranza di governo.
Insomma le riforme non possono diventare delle baruffe, esse
rappresentano l’impalcatura di un progetto di futuro e di
modernizzazione dell’Italia. Per questa ragione devono avere una
prospettiva di lungo periodo e per questa ragione maggioranza e
opposizione devono sottrarsi alle tifoserie da curva. Sono tematiche che
vanno tolte dalle mani dei randellatori politici.
Un percorso potrebbe essere quello rivestito da un modello istituzionale
nuovo creando una nuova Assemblea Costituente.
Si potrebbe pensare ad un percorso diverso da quello del 1946 dando al
Parlamento un ruolo istitutivo della Assemblea e all’elettorato il voto
approvativo. Il Parlamento istituisca una Assemblea Costituente formata
da 100 membri per il 50% tecnici (economisti, giuristi, sociologi,
intellettuali, scrittori) e 50% politici (rappresentanti in modo
proporzionale puro di tutte le forze politiche presenti alle ultime elezioni
europee 2022 con sbarramento al 2%). Si diano 18 mesi di tempo ad
elaborare una proposta che si farà approvare dal popolo italiano con un
referendum confermativo valido con la partecipazione della maggioranza
assoluta degli aventi diritto. Il tempo c’è perché le forze politiche abbiano
tutto il tempo per valutare un tale percorso.
Infatti l’eventuale referendum sull’ autonomia differenziata si collocherà
nel prossimo anno.
Nel frattempo dopo la pausa estiva si prospetta un periodo denso di
impegni politici: dalle elezioni regionali, al piano pluriennale di spesa da
presentare a Bruxelles, scadenza dei termini della proroga delle
concessioni balneari fino alla nuova finanziaria.
Andando oltre agli abbracci alla partita del cuore, dai politici ci
aspettiamo il coraggio di una politica alta. Potrebbe essere il PD nella
persona della sua segretaria a fare una proposta per uscire da questo
ginepraio in cui siamo finiti, forse negli altri partiti troverà a sorpresa
interlocutori attenti e interessati a risollevare le sorti dell’Italia e delle sue
classi dirigenti.
Sarebbe forse un segno forte verso i cittadini che consente una ripresa di
credibilità della classe politica. Certo da sole le riforme non bastano se
non sono accompagnate da una maggiore responsabilità etica delle classi
dirigenti politico economiche e dalla società civile, ma qui come direbbe
De Gaulle saremmo in presenza di un vasto programma. Di sicuro un
clima politico, un contesto più costruttivo può aiutare a migliorare anche
personalmente gli individui.
L’Italia e gli italiani hanno bisogno di meno Ghini di Tacco e più De
Gasperi e Togliatti, Moro e Berlinguer. Forse un sogno di mezza estate.