Cattolici. Le parole per “abitare” la pace

Lunedì, 6 Maggio, 2024

«Essere contemporanei del proprio pensiero» è la sfida dei credenti – scriveva su «Esprit» Jean Lacroix nella crisi fra le due guerre – occorre «preservare un pensiero vivo, che non s’intacca e non si ripete, ma è sempre mobilitato nel presente». Quest’appello si ripropone oggi come urgenza del nostro tempo, nel momento in cui la radicalità del Vangelo trova in papa Francesco una testimonianza forte che sfida l’evidenza del male e dell’ingiustizia ma che ancora attende dalla cultura cattolica la risposta di un’azione sinergica e incisiva.

La “contemporaneità al proprio pensiero” esige tuttavia dai cattolici il contributo di un nuovo alfabeto della politica, una lingua «abitata» e non «abitudinaria», come quella evocata da Charles Péguy a proposito della necessità, per i cristiani, di disimparare la lingua «del legno morto», che descrive il pensiero che “non pensa più” ma si rassegna a riprodurre il contenuto materiale del “mondo così com’è”.

In quest’ottica, siamo dunque chiamati ad «abitare» la parola «pace», come impegno a disarmare in noi stessi, ancora prima che negli altri, l’impulso a prevalere e a imporre visioni unilaterali e autoreferenziali; a ribadire, negli spazi dell’informazione, della conoscenza, della politica, come l’art. 11 della nostra Costituzione italiana sia uno dei fondamenti dell’identità repubblicana, che rifiuta la guerra non solo come strumento di offesa ma anche come mezzo di risoluzione dei conflitti. Abitiamo la parola «ambiente» come trasformazione concreta e quotidiana delle pratiche di consumo e di appropriazione del pianeta, riconoscendo nel cambiamento climatico l'epilogo di un modello di sviluppo capitalistico ostile alle nuove generazioni, che chiedono invece un futuro libero dalle minacce alla natura e alla nostra specie, privo di povertà e risorse diseguali. Abitiamo la parola «cittadinanza», rinunciando a vedere in essa un fatto biologico e involontario ereditato dal sangue ma scorgendovi la grande occasione per ricevere dall'umanità migrante il dono della capacità di sognare ancora una vita migliore. Consentiamo alle ragazze e ai ragazzi giovanissimi in arrivo sulle nostre coste d’insegnarci nuovamente il valore della speranza, permettendo loro di toccarci con le parole dell’Antigone di María Zambrano: «Nessuno ci si è mai avvicinato dicendoci: "Eccovi la chiave della vostra casa, non avete che da entrare". C'è stata, sì, gente che ci ha aperto la sua porta e ci ha fatto sedere alla sua tavola, elargendoci anche più di una buona accoglienza. Ma eravamo ospiti, invitati. Né in nessuna di esse siamo mai stati accolti come ciò che eravamo, mendichi, naufraghi che la tempesta getta su una spiaggia come un relitto che è allo stesso tempo un tesoro». (María Zambrano, La Tomba di Antigone, 1967).

Ma dove «abitare» le parole del messaggio di Papa Francesco? Innanzitutto nei luoghi reali dell’incontro e della partecipazione, esautorati dalla vacuità ipnotica dei network virtuali, strumento di una disintermediazione politica che continua a fomentare semplificazioni populiste e pericolose radicalizzazioni.

Da questo punto di vista anche le parrocchie e le sedi dell’associazionismo cattolico possono restituire spazio a iniziative culturali e formative che vadano oltre gli schemi pastorali ancora concepiti in funzione della «sacramentalizzazione» e non anche in vista della vita cristiana, proiettata all’esterno, nella società.

Si tratta di proporsi un'avvincente avventura educativa, che abbia l'ambizione di recuperare i giovani alla passione politica e civile, con un'attenzione maieutica alle loro aspirazioni, personalità e sogni, che renda loro desiderabile il momento della condivisione, dell'incontro e dello scambio di idee piuttosto che la meccanica replicazione di nozioni astratte e precostituite che la tecnoscienza impone. Solo l'esperienza dell'incontro può preparare i giovani a varcare con responsabilità la soglia di quella che Jennifer Egan chiama la «casa di marzapane», la sfera dell'intelligenza artificiale che prima attira dentro di sé con l'illusione della gratuità e facilità delle informazioni e degli apprendimenti, poi intrappola i soggetti più sprovveduti dentro la mente alveare dello sciame digitale, un’unica rete neuronale di connessioni che - alienando dalla vita reale, offline - trasmette il solo comando del potere dominante. Ma dietro lo schermo digitale, si nascondono feroci disuguaglianze reali, nelle gerarchie del sapere come nella ripartizione delle possibilità di mobilità e ascensione sociale.

Misurarsi con la dimensione giovanile implica tuttavia anche la disponibilità a mettersi dalla loro parte, a comprendere la esigenze di una maggiore democrazia nelle relazioni generazionali e di genere, oltre il modello di un paternalismo patriarcale a cui la comunicazione religiosa appare spesso ancorata, nell'illusoria pretesa di un'opera di convincimento "ex cathedra", a nome e al posto delle donne, dei giovani, dei concittadini con un background migratorio e di tutte le soggettività che compongono la trama reale della società italiana.

La questione del rapporto fra cattolicesimo democratico e politica si colloca dunque innanzitutto sul terreno educativo, senza naturalmente sottrarsi al tema delle concrete modalità di azione.

Il problema della partecipazione politica dei cattolici rimane complesso e non può essere banalizzato, come opportunamente osserva Claudio Sardo, nella forma di «un surrogato del partito che fu» o «di una corrente organizzata, o di un intergruppo su alcuni temi strategici» o ancora di «una lobby». La ricorrenza episodica di figure cattoliche nelle liste elettorali, che in parte riempie il vuoto di una presenza organizzata, avviene spesso in esito a logoranti trattative inevitabilmente subalterne a una concezione frazionistica della forma-partito, dominata da pratiche correntizie di spartizione personale.

Si avverte dunque l’urgenza di valorizzare piuttosto i Lebenswelten, i mondi vitali, dell’associazionismo cattolico, nel Terzo settore come in ambito ecclesiale, ricco di realtà ed esperienze che tuttavia stentano a tradurre le proprie istanze di giustizia sociale in domanda politica, in forme di partecipazione democratica che abbiano una proiezione, se non proprio unitaria, quantomeno coerente con i comuni valori di partenza.

Serve il coraggio di guardare con onestà alle divisioni del tessuto ecclesiale, alla mancanza di sinergia che talvolta deriva da logiche di gruppo autoreferenziali, che si risolvono in pretese di verticalizzazione di potere, nella prospettiva dell'esclusione anziché della cooperazione. La risposta è nella carità, nell'esempio del Giuseppe biblico della Genesi che, pur disponendo nell’Egitto dei Faraoni del potere di schiacciare ed umiliare i propri fratelli, sceglie la strada della riconciliazione e del perdono per amore di Beniamino, nato in sua assenza nella casa del padre Giacobbe, il fratello più piccolo, simbolo della condizione umana più umile e fragile. Non si può realmente accogliere tale fragilità senza gesti di autentica sinodalità, attenti a valorizzare il contributo dell'altro, prima ancora che il proprio: «fate a gara a stimarvi a vicenda» (San Paolo, Rm 12,10).

All’origine dell’avventura storica del cattolicesimo politico e sociale vi era stato, nel 1906, l'appello profetico del cristiano-democratico tedesco Julius Bachem «Wir müssen aus dem Turm heraus»  - “dobbiamo uscire dalla torre” - con riferimento al simbolo araldico del castello che compariva nel logo dello Zentrum, all’epoca ancora partito di notabili e dignitari, chiuso nel perimetro delle dinamiche ecclesiastiche.

Si dovrebbe ripartire nuovamente da qui perché la posta in gioco è alta. Vi sono innanzitutto obiettivi di riforma ed innovazione del sistema politico che richiedono che non si disperda il patrimonio del riformismo di matrice cristiana ma che interpellano i cattolici a svolgere la funzione che è loro propria, l’idea della politica come incontro e come mediazione, il senso della cittadinanza come solidarietà contro ogni individualismo. Ma c’è molto di più.

Nel 1994, gli autori del documento programmatico redatto in vista del Forum nazionale dei cattolici progressisti, Verso la democrazia dell'alternanza: quale presenza efficace e visibile dei laici cristiani?, scorgevano all’orizzonte «il dilagare dei particolarismi etnici e degli egoismi sociali», «l'acuirsi dei focolai di guerra», «il riemergere delle intolleranze razziali e delle tentazioni autoritarie», «l’approfondirsi del solco, su scala nazionale e planetaria, fra le aree della ricchezza e quelle della povertà», «il ridursi dei limiti di compatibilità dell'ecosistema» (cit. in C. Sardo, C.F. Casula, M. Lucà, Da credenti nella sinistra, Il Mulino 2019,  p. 47).

Colpisce rileggere, dopo vent’anni, l’analisi proposta dai cristiano-sociali.

Quanto è costato al paese l’oblio di quel pensiero politico?