L’illusione (pericolosa) del sovranismo

Domenica, 2 Giugno, 2024

LA POSTA IN GIOCO  

La posta in gioco delle prossime elezioni del Parlamento europeo non riguarda singoli aspetti (pur molto rilevanti) delle politiche che l’UE potrà mettere in campo, ma una scelta di fondo. Ossia la direzione che si imboccherà in base alla maggioranza che il Parlamento UE potrà esprimere, designando di conseguenza la prossima Commissione Europea.

Questa scelta di fondo, semplificando per non perdere il punto essenziale, riguarda la decisione se perseguire la prospettiva federalista o invertire la rotta e orientarsi verso una prospettiva sovranista. In breve: “Più Europa” o “Meno Europa”?

Nel primo caso si tratterà di continuare nel processo verso i cosiddetti “Stati Uniti d’Europa”, sviluppando l’integrazione e affidando alla sovranità europea nuovi ambiti di intervento rispetto alle competenze ora in mano agli stati nazionali. Nel secondo caso si darà seguito ad un processo inverso: accentuazione degli “interessi nazionali” con l’indebolimento delle politiche comunitarie e delle stesse istituzioni europee.  Nell’ambito dell’UE, quindi, il sovranismo si può considerare il nome nuovo del nazionalismo.

Negli ultimi cinque anni il vento antieuropeista si è rafforzato, con l’uscita dell’Inghilterra dall’UE e la crescita in molti stati di formazioni politiche che hanno espresso forti critiche alle politiche comunitarie (specie in campo agricolo e in quello della transizione ecologica, ma anche in quello della promozione dei diritti umani e della tutela delle istituzioni democratiche). Critiche che si sono sovrapposte a quelle degli ‘anti-europeisti’ già contrari all’euro e al potere delle istituzioni comunitarie stesse. La difesa di interessi particolari, specifici e concreti, si è così intrecciata con le teorie complottistiche, dove si paventa la sostituzione etnica e quella alimentare, il dominio sanitario e sociale sui popoli da parte delle elites manovrate dall’UE (vista un po’ come il Grande Fratello di orwelliana memoria). Tesi propagandistiche, sovente trasmesse in linguaggi ostili e manipolatori, ma che trovano ampia fortuna sui social e purtroppo alcuni riscontri anche in esponenti politici di rilievo. 

TRA NAZIONALISMO E COOPERAZIONE

La posta in gioco è quindi, in primo luogo, il modello di relazione tra stati e popoli, sia all’interno dell’ambito europeo, sia su scala mondiale. Infatti, anche se l’Europa sul piano geo-politico non può ambire a giocare un ruolo egemone o centrale, il modello avviato con l’UE può essere un riferimento prezioso per disegnare rapporti che aiutino il passaggio da un modello di tipo nazionalistico/conflittuale ad uno di tipo cooperativo, consolidando un sistema di relazioni internazionali di carattere multilaterale, rispetto a quello bilaterale. I disastri prodotti dal nazionalismo europeo con le due guerre mondiali hanno condotto alla costruzione di istituzioni internazionali (in primis l’ONU) che hanno operato per un dialogo e una collaborazione tra gli stati, al fine di evitare il modello della guerra come modalità di risoluzione dei conflitti.

Il modello nazionalistico ha però nel contempo conosciuto nuova fortuna nell’est-europeo (si veda il caso di Russia e Ucraina) e fuori dall’Europa (si pensi all’India, alla Cina, alla Turchia), producendo tensioni sempre più forti e di fatto indebolendo le possibilità di gestire politicamente il fenomeno epocale della globalizzazione, costruendo le condizioni di giustizia che aprano le strade alla pace. Ma la stessa affermazione dell’ “American First” impersonata da Trump adombra una logica egemonica ed imperiale, in netto contrasto con il multilateralismo cooperativo.

Proprio l’accentuarsi delle guerre e dei contrasti tra stati indica in modo sempre più evidente la necessità di sviluppare le forme di collaborazione e di dialogo, a maggior ragione di fronte alle sfide mondiali costituite dal cambiamento climatico e della crescita delle diseguaglianze socio-economiche e giuridiche, inerenti il rispetto e la promozione del diritti umani fondamentali.

E’ sempre più evidente che una serie di questioni, oggi principalmente in capo agli stati nazionali, possono essere affrontate solo su scala internazionale, in cui gli stati europei potranno avere ‘voce in capitolo’ solo se avranno una posizione condivisa all’interno dell’UE. Si pensi ad alcuni ambiti rilevanti come la politica estera, il governo dei flussi migratori, le politiche di accoglienza, il contrasto alla criminalità organizzata, il controllo sulle grandi multinazionali e sulla gestione dell’informazione, le politiche relative a clima e inquinamento, le regole sulla produzione e il commercio (origine, composizione, tracciabilità, …), la tutela dei lavoratori, le reti di trasporti a lunga distanza, l’educazione e la formazione giovanile …

E’ altrettanto chiaro che per arrivare ad un maggior grado di integrazione - necessario per affrontare tali questioni - occorra armonizzare le politiche fiscali e del lavoro, ambiti decisivi non solo sul piano economico ma anche sociale e intergenerazionale.

PERCHE’ IL CONSENSO AD UNA PROSPETTIVA FALLIMENTARE

In sostanza: in un mondo interconnesso la convinzione di poter bastare a se stessi è un’illusione. Ma è anche un’illusione pericolosa: il sovranismo risulta essere una prospettiva fallimentare per il futuro dell’Unione Europea e per la collocazione internazionale dei paesi che ne fanno parte; singolarmente non potranno incidere nelle relazioni internazionali né garantire al proprio interno lo sviluppo del sistema democratico.  Non solo: tutta la storia del Novecento ci insegna che l’orizzonte dei nazionalismi è la guerra, come esito di conflitti sempre più profondi per l’intento di conquistare l’egemonia; prospettiva esattamente opposta a quella della cooperazione tra stati e popoli.

In secondo luogo il sovranismo mette in discussione la connessione tra i diversi livelli di sovranità che il modello europeistico ha inaugurato: ossia l’integrazione tra la sovranità nazionale, quella europea, quella locale (regionale). Tre livelli che si integrano secondo i principi di solidarietà e sussidiarietà (che sono tra i cardini della visione socio-politica del magistero della Chiesa). Il sovranismo (come già il nazionalismo della prima metà del ‘900) tende ad escludere il modello della cooperazione tra gli stati, per dare priorità all’interesse nazionale. Nel caso attuale esso viene costantemente posto in contrapposizione con quello europeo: la propaganda (non solo quella elettorale, ma quella che da anni persegue questo scopo) pone ed esaspera il contrasto, attribuendo la responsabilità di tutti i problemi al livello comunitario, come se fosse estraneo alle decisioni dei governi nazionali (il ritornello “ce lo chiede l’Europa …”, o “ce lo impone l’Europa”). Invece, le direttive europee sono frutto di un complesso processo decisionale che coinvolge non solo il parlamento UE ma anche il Consiglio Europeo e dei ministri, in cui operano i governi nazionali; ed in molti casi tali decisioni dipendono da un meccanismo decisionale all’unanimità. Inoltre, sfugge a molti che in tutta una serie di ambiti cruciali (dalla politica estera, alla difesa, all’immigrazione, alla fiscalità,  …) resta sotto il controllo preponderante dei governi nazionali. In ogni caso, le decisioni assunte a livello europeo – quando vengono ratificate dai singoli stati – costituiscono una garanzia di stabilità per gli equilibri economici e sociali, ponendo argine ai rischi di derive pericolose o comunque offrendo garanzie di sostegno; il caso del debito italiano è eclatante, non solo per la sua misura rispetto al PIL (oltre il 140%), ma anche per l’ampia quota in mano alla BCE (circa 1/3).

Nonostante ciò, l’ondata sovranista pare ingrandirsi e incontrare consenso proprio tra i soggetti e le classi sociali più deboli (paradossalmente quelle che avrebbero maggior interesse ad un sistema stabile e orientato a politiche di riequilibrio, redistribuzione e di giustizia sociale). E’ riscontrato da diverse ricerche che le propagande manipolatorie ‘funzionano’ meglio sulle persone che hanno meno strumenti culturali, un minor tasso di scolarizzazione, una minor frequentazione di associazioni, gruppi, … quindi meno possibilità di confrontarsi e di sviluppare una riflessione critica, mentre palesano maggior dipendenza dai social e dai messaggi tv. La difficoltà a decodificare i messaggi complessi, l’abitudine ad una comunicazione fatta di slogan brevi e ‘forti’ favorisce in molti una scelta semplificata, basata sull’effetto immagine del leader, oppure legata a motivi specifici, di stretto interesse particolare (un condono, un bonus, una promessa…), quando non illegali (il c.d. “voto di scambio”) o effetto di ‘narrazioni’ sganciate dalla realtà. Un meccanismo che, se ‘cattura’ il consenso di alcuni, allontana molti altri dalla politica, demotivati dalla confusione e dalla corruzione. Alla riflessione e al confronto tra programmi si sostituiscono i dibattiti ‘urlati’, lo schema amico/nemico. E ciò, alla fine, incanala verso un atteggiamento di chiusura, nazionalistico in senso lato e localistico (“prima gli italiani”, “prima il nord”, “prima noi” …), ben lontano dal merito dei problemi e da soluzioni costruttive.

LA COMPONENTE CULTURALE-RELIGIOSA DEL SOVRANISMO

Ma c’è anche altro. E’ più difficile, ma necessario, cogliere le motivazioni «ideali» del sovranismo, che pure sono presenti. Mi pare che esse stiano nel tentativo di riappropriarsi di una capacità di controllo sui valori, di incarnare una ‘missione civilizzatrice’ (quando non direttamente evangelizzatrice). Un terreno su cui si gioca il raccordo tra tradizionalismo cattolico e movimenti di destra e di estrema destra (che invocano la «civiltà cristiana»).  Una reazione che svolge una funzione securizzante rispetto alle paure di “perdita di identità”, ma sostanzialmente illusoria rispetto alla dimensione dei problemi (si pensi alla questione denatalità) e ai dati di realtà (il cristianesimo come realtà di minoranza nella società occidentale), oltreché foriera di una logica di scontro, contrapposizione, difesa, fortemente identitaria ed ‘esclusiva’, rispetto a tradizioni, orientamenti sessuali, differenze etniche, religioni non cristiane, …

Si tratta di atteggiamenti alimentati anche dalla difficoltà di gestire il processo di globalizzazione e di integrazione delle differenze (rispetto al processo di omogeneizzazione del modello di vita e di consumo). Ciò ha prodotto una reazione localistica (che certa politica ha inseguito, invece che orientare all’integrazione con le dinamiche più ampie) e di mitico ritorno al passato (che certi filoni culturali irrazionalistici tendono ad esaltare), che trovano riscontri continui nelle teorie complottistiche più varie, che tendono ad essere riunite nella visione di un complotto mondiale, rispetto a cui occorre andare alla battaglia decisiva. Questo si connette ancora all’idea del declino morale dell’Occidente, potente leva usata dalla stessa propaganda russa (sostenuta da alcuni esponenti della chiesa ortodossa) e dal fondamentalismo musulmano; un declino che dimostrerebbe anche la fragilità e inadeguatezza della democrazia liberale. 

Proprio i critici dell’UE, che evidenziano gli effetti negativi della globalizzazione, dovrebbero rendersi conto che una vittoria del sovranismo in Europa, porrebbe i singoli stati in una situazione di maggior debolezza rispetto alla possibilità di governare la globalizzazione, di far fronte alle grandi imprese multinazionali, di porre regole che evitino il far west in settori strategici (come quelli della transizione digitale, dell’energia e dell’ambiente, ma anche nel commercio).

 Occorre renderci conto della diffusione di questi filoni, ormai collegati tra loro: è operativa una rete di movimenti antieuropeisti, che – pur con matrici diverse - mirano a dimostrare la pericolosità dell’UE. Non si tratta solo di movimenti marginali di estremisti neonazisti e neo fascisti (che troppo facilmente però vengono ridotti a fenomeni irrilevanti), bensì di forze politiche che godono di ampi consensi. Alla rete antieuropeista non sono estranei interventi esterni (specie russi) che hanno interesse ad un indebolimento dell’Europa[1].

D’altro lato resta aperta la necessità di intercettare quel disagio (sociale ma anche culturale) che trova risposte in tale tipo di propaganda e che poi si esprime in forme di protesta e di contrasto, magari approssimative e irrazionali, o legate a problemi specifici (si veda la recente protesta degli agricoltori). Emblematica e preoccupante la spaccatura della società USA, con la ripresa del suprematismo bianco e l’ampio consenso alla visione di Trump; ciò segnala il rischio reale di liquidazione della democrazia, in quella che era considerata la “culla” del sistema liberal-democratico.

Per l’Italia questa saldatura tra movimenti di destra e tradizionalismo religioso non è neppure una novità. Nei primi anni ’20, nell’alveo del movimento cattolico si delinea una posizione che connette la ripresa religiosa con la visione nazionalistica: Roma, centro dell’antico impero ma anche cardine della cattolicità, diviene un mito in cui la civiltà cristiana si intreccia con l’affermazione della supremazia della nazione. Da qui anche la nascita di un filone politico cattolico-nazionalista, che confluisce nel fascismo (anche con l’intento di ‘cristianizzarlo’).  Anche in quel caso l’operazione politica e poi la conquista coloniale veniva giustificata con l’intento di espandere e difendere la ‘civiltà cristiana’. I tempi cambiano, ma alcuni meccanismi e forme propagandistiche si ritrovano negli slogan attuali riguardanti la difesa della razza, contro il meticciato, l’omosessualità, l’islamofobia, l’antisemitismo, l’immigrazione (specie dall’Africa e dall’Asia dove è più evidente la ‘differenza di colore’…).

  

LA DERIVA DELLA DEMOCRAZIA:

L’EQUIVOCO DELLA SOVRANITA’ POPOLARE DAL PARLAMENTO AL GOVERNO

Se il sovranismo/nazionalismo risulta una pericolosa illusione su scala europea e mondiale, esso si riflette anche nelle dinamiche politiche interne all’Italia. La rivendicazione della sovranità nazionale rispetto a quella europea si rivela quantomeno molto ambigua se la inquadriamo in una visione democratica della politica. Il sovranismo ha una relazione contradditoria con il sistema democratico parlamentare. Uno degli esponenti del sovranismo in Europa, il premier ungherese Orban, ha proposto una nuova versione del sistema politico, la “democrazia illiberale”, in cui la funzione del parlamento diviene marginale, così come la stessa divisione dei poteri; la ‘democrazia’ resta confinata al momento elettorale in cui si affida il potere ad un capo, mentre assume un peso decisivo il controllo dell’informazione e delle possibili forme di opposizione organizzata. Troviamo modelli di democrazia autoritaria in Russia, Turchia, India, … in cui il ruolo del leader diviene assolutamente centrale rispetto alle varie istituzioni. Istituzioni che nel sistema liberal-democratico sono distinte, con gradi di autonomia ed in un sistema di equilibri e contrappesi, volti proprio ad evitare l’accentramento del potere.

Nota Giovagnoli: “È sempre più diffuso l’equivoco secondo cui sovranità popolare (il popolo come fonte di ogni potere) coincide con consenso elettorale (che misura la forza dei partiti). Ma non è così: se la prima è il fondamento della democrazia, il secondo è compatibile anche con regimi non democratici”[2]. L’equivoco tocca direttamente la proposta del premierato e le motivazioni addotte per sostenerlo.

Per sovranità popolare s’intende il potere di tutti i cittadini. Essa si manifesta nel Parlamento, istituzione rappresentativa delle varie voci del popolo. Non a caso i padri costituenti lo hanno posto al centro dell’impianto istituzionale dello stato repubblicano. La centralità del Parlamento non solo esprime il pluralismo politico, ossia le diverse visioni e progetti politici (anche di chi le elezioni non le ha vinte), ma evita la sovrapposizione tra sovranità popolare e UN partito e UN governo (sovrapposizione tipica del sistema fascista). Il governo, infatti, rappresenta la volontà di una parte più o meno ampia dei cittadini, ma non di tutti, a maggior ragione quando l’astensionismo è molto alto. Per questo il governo esprime una maggioranza ma non si può identificare con la volontà popolare, a maggior ragione quando manchino modalità e norme di autonomia ed equilibrio tra le varie istituzioni (Governo nazionale, Presidente della Repubblica, Parlamento, Regioni, Magistratura).  Il discredito che si è costruito intorno al Parlamento (e che diversi suoi membri hanno contribuito ad alimentare con i loro comportamenti ben distanti da quella “disciplina e onore” indicata dall’art. 54 della Carta) ha già condotto ad una sua riduzione numerica, ad una sua forte dipendenza dall’esecutivo, ponendolo sulla pericolosa china della marginalità. Se la combinazione di premierato e autonomia differenziata ora in discussione andrà in porto, il Parlamento vedrà ridotto drasticamente il suo ruolo e campo di azione. Così, mentre il Presidente della Repubblica – espressione della sovranità popolare in quanto eletto dal Parlamento – sarebbe ridotto al rango di notaio e in posizione più debole al Presidente del Consiglio “investito direttamente dal popolo”, il Parlamento nazionale diventerà ancor più un luogo principalmente di ratifica delle scelte del governo, perdendo larga parte del suo potere rispetto al governo stesso (che in democrazia dovrebbe invece restare subordinato al Parlamento).

Lo stesso percorso della riforma del premierato è indicativo di questo orientamento. Proprio il luogo propriamente deputato a discutere di riforme costituzionali, ossia il Parlamento, non ha registrata una vera discussione volta a giungere a soluzioni ampiamente condivise, ma è stato scavalcato dall’iniziativa governativa. Essa va non tanto nella direzione di cercare un largo consenso tra le varie forze politiche (come dovrebbe essere per le norme costituzionali, che implicano una elaborazione complessa), ma nella prospettiva di giocare la partita decisiva con il referendum, ossia con un “prendere o lasciare” affidato ad un pronunciamento popolare, in cui riprodurre la logica maggioranza/opposizione. Una sola e decisiva prova di forza, uno scontro finale che in ogni caso lascerà al Paese un sistema squilibrato e legittimato solo da una minoranza di cittadini (per il referendum costituzionale non c’è quorum). Il metodo seguito quindi pone già al centro il ruolo (improprio) del potere esecutivo rispetto al Parlamento, in una iniziativa legislativa così fondamentale come quella di una riforma costituzionale di forte impatto con le istituzioni. Le riforme in cantiere paiono quindi subordinate a garantire il governo in carica e gli equilibri tra le forze politiche che lo sostengono (in particolare lo ‘scambio’ con l’autonomia differenziata voluta fortemente dalla Lega, e con la riforma della Magistratura sostenuta da Forza Italia), piuttosto che volte a modernizzare, riequilibrare e irrobustire il sistema politico-amministrativo del Paese.

La confusione tra consenso (che esprime una maggioranza) e sovranità popolare (che è di tutti i cittadini) è quindi particolarmente insidiosa nel sistema italiano, ma risponde a quel riflesso semplificatorio e anti-democratico che difronte alla complessità conduce a delegare a un “capo” tutta la responsabilità politica, quale che sia la legge elettorale che seguirà alla riforma. E segna con evidenza come l’attuale maggioranza governativa (votata dal solo 27% del corpo elettorale), pretendendo di esprimere l’intera volontà popolare, intenda operare una rottura storica con il dettato costituzionale e l’impianto istituzionale che ne deriva. Quasi un “redde rationem” di quell’esiguo manipolo di costituenti che votarono contro la Carta nel 1947.

Questa confusione (ed il metodo seguito per la riforma) di fatto intacca proprio la sovranità popolare, in quanto non fa riferimento alla Costituzione. La Carta, infatti, esprime al massimo livello la sovranità popolare. Come il presidente Mattarella sovente richiama, il nucleo del compromesso costituzionale fu l’intesa raggiunta, tra tutte le più importanti forze politiche, sul primato della democrazia rispetto alle loro diverse ideologie: è questa la sostanza dell’antifascismo della Carta. Per la Costituzione la sovranità popolare non è solo un punto di partenza, ma anche un obiettivo da raggiungere: la partecipazione dei cittadini all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La democrazia non indica solo istituzioni, norme e procedure, ma più profondamente un modo di convivenza (alternativo a quello dello scontro violento) ed un processo per costruire l’uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini. E’ quanto indica appunto l’art. 3 della Costituzione, quando assegna alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli” che frenano o impediscono la partecipazione e l’inclusione sociale dei più deboli. 




[1] Nel maggio 2024 il Parlamento UE ha votato una inedita e preoccupata raccomandazione agli stati membri al fine di a contrastare "con urgenza" i tentativi di ingerenza russa, anche in vista delle prossime elezioni europee. Nella risoluzione, approvata con 429 voti a favore, 27 contrari e 48 astensioni, i deputati denunciano "fermamente" i tentativi sostenuti dal Cremlino di interferire e minare i processi democratici europei, come indicato in diverse recenti rivelazioni. Gli europarlamentari di Fratelli d'Italia, Lega e Movimento 5 Stelle si sono astenuti. Cfr. https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20240419IPR20542/i-deputati-chiedono-un-azione-ferma-per-contrastare-le-interferenze-russe  ; https://www.lastampa.it/politica/2024/04/25/news/voto_al_parlamento_ue_sulle_ingerenze_russe_si_astengono_lega_fdi_e_m5s_come_i_lepenisti_e_vox-14253911/