L’intelligenza artificiale è… intelligente? Per un discernimento educativo

Lunedì, 3 Luglio, 2023

Il nostro tempo è pervaso da strumentazioni e applicazioni che intervengono in ogni ambito della nostra vita, fino a determinarne o perlomeno ridefinirne le pratiche. Una delle sue caratteristiche è il fraintendimento semantico. Ovvero chiamiamo le cose utilizzando categorie pubblicitarie e non etimologiche: un “amico” sui social è cosa diversa da una persona con cui sperimentiamo l’amicizia (versione terrena dell’Amore di Dio per gli uomini, cfr. Giovanni – Gv1 4, 11-18) eppure è vocabolo assai motivante per “accettarlo” (a sua volta, un verbo che sottodimensiona la fatica dell’accettazione dell’Altro).  Stesso ragionamento vale per un “like”: il piacere è una dimensione fondamentale e profonda del nostro conoscere il mondo e operare scelte. E così via.

Che cosa fa l’intelligenza artificiale?

Di fronte a tale tendenza vale dunque la pena chiederci: ma che cos’è l’intelligenza?

L’etimologia di intelligenza aiuta bene a definirla: derivato di intelligere 'intendere, capire', propriamente 'leggere in mezzo' (composto di inter  e  lègere). Per chi è credente questo significato si intreccia col fatto che l’intelletto sia un dono dello Spirito Santo.

L’intelligenza artificiale (AI) ci permette tutto questo? Probabilmente no. O perlomeno non per ora, e comunque solo in parte.

Che cosa fa l’AI? In estrema semplificazione, è uno strumento che risponde a domande-richieste che le poniamo, producendo testi che non sono vere e proprie risposte, ma il riassunto di tutte le risposte che sono già state date a quella domanda e che una serie di algoritmi (ovvero sequenze di istruzioni) le permettono di reperire e assemblare ad uso della nostra richiesta. Perché quindi è discutibile che sia intelligente? Perché non è un leggere tra, ma un leggere insieme e poi ridurre ad unum. In altre parole: le manca l’originalità (non crea qualcosa che prima non c’era), le manca il discernimento (non sa distinguere-discernere ciò che produce in relazione alle fonti, a meno che non siano i programmatori a indicarlo) e le manca una gerarchia valoriale (non fa differenza tra la domanda “qual è il senso della vita?” e “qual è  la sfida più divertente che posso fare coi miei amici?”).

 

Quali sono le implicazioni di tutto ciò nelle nostre vite?

Come sempre, di fronte ad una innovazione tecnologica, i commenti spaziano dall’entusiasmo totale al terrore catastrofico, senza trascurare il rilievo economico che essa assume. “Grazie all’AI, la medicina farà passi da gigante, offrendo diagnosi utilissime, perlomeno come terzo parere per offrire aiuto quando due consulti medici non collimano” è una prospettiva che coesiste con “Questa nuova forma di intelligenza sostituirà tutti i lavoratori dell’industria culturale, instupidendo irrimediabilmente la nostra società”. In realtà non giova essere né tecnofili né tecnofobi.  Di recente la giornalista e scrittrice canadese Naomi Klein ha messo in guardia dalle “allucinazioni” che la società capitalista realizza grazie all’AI: “Le aziende tecnologiche sostengono che l’intelligenza artificiale risolverà molti problemi e migliorerà la vita delle persone. Ma senza regole adeguate produrrà sfruttamento e povertà” [1].

Per quanto riguarda il mondo del lavoro, probabilmente –  almeno nel breve periodo - l’impatto principale coinvolgerà quei lavori intellettuali che già ora si basano su un elevato livello di omologazione (e omogeneizzazione) culturale: un breve discorso politico, un articolo di giornale che riassume un fenomeno, una foto di repertorio, l’etichetta di un prodotto, il contenuto di un messaggio per i social media, etc. Chi abbia già sperimentato uno di questi servizi, avrà colto il fascino di una tecnologia in grado di restituire una storia, una immagine, una suggestione… Non a caso tali servizi sono offerti gratuitamente online per il nostro diletto/curiosità; ma ogni volta che qualche prodotto o servizio è gratuitamente offerto al di fuori di una relazione interpersonale, è opportuno chiedersi il perché e a vantaggio di chi[2].

Insomma, per quanto le aspettative siano alte, è ancora tutto da dimostrare che una intelligenza non proprio così intelligente saprà sostituire la creatività, sensibilità, profondità e complessità del pensiero umano, con effettivi risvolti sulla vita pratica delle persone.

 

E per quanto riguarda l’educazione?

Un primo snodo problematico riguarda la generale scarsa conoscenza del fenomeno tra gli addetti ai lavori (docenti, educatori/trici, operatori/trici sociali, persone investite delle decisioni pubbliche in ambito socioeducativo), che necessiterà sicuramente di interventi formativi e di un aggiornamento costante[3].

In secondo luogo, si vagheggia (con preoccupazione oppure con fascinazione) di scenari didattici nuovi, in cui la figura docente è relegata al controllo dell’originalità dei lavori prodotti in classe o come compiti, o ad una rivoluzione completa dell’attività scolastica e formativa[4].

Terzo, la prospettiva di chi apprende: se esiste uno strumento “magico” che può fare un tema al posto mio, tale prospettiva può risultare capovolta. Non solo per il mancato sforzo necessario ad imparare, ma anche per il mutare/sfumare della dimensione dell’approccio alla cultura/conoscenza, senza contare che il meccanismo logico sottostante al ricercare-discernere-selezionare-rielaborare (indispensabile per lo sviluppo cognitivo della persona completa) risulta assai ridotto, quasi evanescente.

I punti qui segnalati sono solo un abbozzo della riflessione pedagogica che è possibile sviluppare in merito, ma tutti e tre convergono verso un unico punto: l’alfabetizzazione educativo-digitale, attraverso l’educazione ad un uso consapevole dei media (non a caso significa tutto ciò che sta in mezzo, in questo caso tra apprendente e discente) e una idea di scuola che parta dalla persona[5].

Altrimenti l’esperienza di apprendimento - e la conseguente educazione alla cittadinanza – non potranno essere altro che un aumento dello scarto tra chi è bravo con le tecnologie e chi non lo è, tra chi può permettersi strumenti molto avanzati e chi non ha le risorse economiche, tra chi è abile, diversamente abile o meno abile ad imparare. Discorso che vale primariamente per chi impara, ma anche per chi insegna: il rischio di accrescere le sperequazioni è tangibile.

E una scuola che aumenta le disuguaglianze è ingiusta. Incostituzionale. Lontana dall’ispirazione cristiana.   Insomma, proprio non ci piace…

 

Emanuele Rapetti
Pedagogista, maestro nella scuola primaria

 


[2] Per approfondire, cfr. il podcast Tienimi Bordone, dell’autore televisivo Matteo Bordone, “Chat GPT, la legge e il cane di Gianni Cuperlo” al link https://www.ilpost.it/episodes/chat-gpt-la-legge-e-il-cane-di-gianni-cuperlo/.

[3] Una breve, ma utile, lettura è disponibile al link: https://www.micromega.net/intelligenza-artificiale-e-scuola-una-rivoluzione-in-arrivo/ che a sua volta commenta il recentissimo e interessante volume C. Panciroli, P.C. Rivoltella, Pedagogia algoritmica. Per una riflessione educativa sull’Intelligenza Artificiale, Scholé, 2022. 

[4] Chi entra in una scuola oggi (almeno in molte zone del paese) vede una gran quantità di tecnologie a disposizione: laptop, tablet, LIM, “contesti immersivi”, visori, robottini, etc. Nulla di tutto ciò è di per se garanzia di una diversa o migliore pratica didattica, se non è sostanziato da una reale consapevolezza e inserito in una relazione educativa.

[5] Tutta la pedagogia di ispirazione cristiana su questo può molto aiutare a rimettere i giusti riferimenti al posto giusto. Valga per tutti don Lorenzo Milani, di cui abbiamo da poco ricordato il centenario della nascita.